La UE allunga radici inglobando nel “mercato comune” i mercati nazionali e da aprile ha istituito il “quadro comune per i servizi media nell’ambito del mercato interno”. Così si legge nel frontespizio del Regolamento che correntemente è detto Media Freedom Act. Se è sempre arduo imporre regole comuni a realtà cresciute a modo proprio, stavolta l’impresa appare tanto razionale quanto temeraria.
Razionale è per i mass media puntare all’economia di scala, realizzando prodotti capaci di piacere più o meno ovunque.
Che non vuol dire affatto puntare ad un pubblico generico e mediocre, ma proprio al suo contrario.
L’ampiezza della platea potenziale permette infatti di far massa con segmenti di pubblico che a livello nazionale non ripagherebbero i costi di una produzione c destinata. Il mercato largo invece somma le nicchie sparse mutandole in audience potenti e capaci di sostenere specifiche filiere produttive. A chi ne dubitasse ricordiamo l’esempio di Discovery, sorta decenni or sono dal talento di un documentarista che negli USA ha quel mercato continentale che funge da background a prodotti ad alto budget ripagandoli in gran parte e permettendo al produttore di estrarre dai clienti esteri esattamente quanto sono in grado di pagare a scanso della tentazione di produrre in proprio.
In questa dinamica, fino ad oggi, l’Europa in quanto tale non è mai esistita e per contro i 27 mercati nazionali sono da sempre in fila per acquisire il prodotto americano col quale nel corso dell’ultimo secolo hanno progressivamente saturato botteghini e palinsesti a beneficio dei produttori d’oltre oceano.
Contemporaneamente ogni Stato europeo ha istituito sovvenzioni per dare comunque occupazione a giornalisti, creativi e realizzatori non tanto per insopprimibile interesse alla cultura quanto perché a quelle professioni puntano da sempre i figli della classe dirigente. Inoltre e non da ultimo, i media sovvenzionati, i Servizi Pubblici Televisivi in particolare, sono una pacchia per visibilità e rielezione dei politicanti di passaggio.
Il bello e il terribile del Regolamento Freedom Act e che sprovincializza il settore costringendo le sovvenzioni cash a darsi un orizzonte continentale e i Servizi Pubblici a farsi indipendenti per continuare ad agire come imprese e non come strumenti ripagati dai profitti di potere.
Esiti necessari per istituire un mercato comune, ma talmente diversi dall’andazzo corrente (di cui la lottizzazione Rai è un eloquente esempio) da far sorridere di scetticismo i commentatori d’ogni parte, come se l’Europa avesse fatto stavolta un passo più lungo della gamba.
Ben venga anche in questo caso lo scetticismo come vaccino del velleitarismo, ma senza trascurare di accorgersi che a spingere verso l’obiettivo “impossibile” c’è una forza travolgente: la disperazione.
Causata dai 500 miliardi che annualmente se ne vanno dall’altra parte dell’Atlantico (attraverso botteghini, pubblicità, streaming, mercati online) e inaridiscono a vista d’occhio, come neanche le riserve d’acqua di Sicilia, ricavi, profitti, stipendi e salari nazionali. Una perdita che nessuno dei 27 Stati UE è in grado a colpi di sovvenzione di colmare.
Per cui o si mandano in malora pezzi di società assai contigui alla classe dirigente o si fronteggiano prodotti e servizi media americani costruendo la forza di un mercato comune che prenda il posto delle 27 debolezze nazionali.
Nel secondo caso affrontando un’impresa che si appaia a pieno titolo a quelle, ancora in ritardo, dell’unione fiscale e della comunanza d’armamenti.
“Anticipi e avvisaglie”
Nei mesi a venire regnerà il count down verso l’8 agosto 2025 cui, a regola di Regolamento, alle 27 RAI toccherà in sorte una piena e garantita indipendenza (l’associazione Articolo Quinto -www.art5.it- e nata per evitare che il Parlamento lo dimentichi). Ma l’opinione pubblica dovrebbe tenere d’occhio anche altri settori dove è stretto il rapporto fra i media e la politica. A partire dal più antico: le sovvenzioni alla cinematografia da tempo allargate alla produzione audiovisiva in generale. Questi soldi (quasi un miliardo all’anno), vengono distribuiti con due modalità:
automatismi fissati a priori per le imprese nazionali che giocano di sponda fra Rai, Sky e Netflix e grazie a quei soldi non fungono da banali appaltatori; erogazioni discrezionali concesse previo esame di apposite Commissioni ministeriali. I produttori che agiscono in questo secondo e sminuzzato campo non sono capitalizzati e tremano al ritardo d’ogni sovvenzione. Ritardo che quest’anno c’è stato anche se finalmente i decreti di stanziamento sono arrivati. Ma resta da vedere l’operato delle Commissioni preposte all’assegnazione.
E qui s’è aperta una partita interessante perché le sigle unite del mondo del produrre hanno messo per iscritto, quasi echeggiando la logica produttivista e anti clientelare del Freedom Act, che le Commissioni siano sì discrezionali, ma, in coerenza con tanto potere, siano formate esclusivamente da “professionisti di comprovata esperienza nei campi della creazione, sviluppo, produzione, e distribuzione di opere audiovisive a livello nazionale e internazionale; esercenti ed esercenti di cinema d’essai; selezionatori dei principali festival italiani e internazionali; lettori per broadcaster e piattaforme, questi ultimi con almeno un’esperienza triennale; membri della giuria di concorsi nazionali o internazionali come il Premio Solinas; lettori di Eurimages e di Europa Creativa (sistemi di sovvenzione per opere inter-europee); esperti nel campo della promozione cinematografica e nella valorizzazione culturale del territorio.”
Insomma, si chiede che a giudicare siano professionisti sperimentati della “valutazione” di progetti di prodotto, invece che variopinti rappresentanti di fedi, ideologie e furbizie varie.
Per cui, diciamo anche per darci coraggio, venga pure lo scetticismo scaramantico verso l’impresa del Media Freedom Act. Ma non uno scetticismo tanto ingombrante da impedire di vedere che la convergenza fra la norma, la razionalità e la stringente necessità pare che renda le idee chiare. Il resto è lotta.