Simbolo di quella parte romantica del mestiere d’inchiesta e di caccia a quello che c’è dietro o sotto le verità ufficiali e politiche, Julian Assange, piegato da quattordici anni di fuga dai molti ergastoli promessigli dalla “più grande democrazia del mondo” di cui ha rivelato le tante magagne segrete (torture, omicidi, ricatti e simili), è tornato nella sua Australia grazie ad un patto con il presidente Usa Biden che con cinico opportunismo ha offerto di smettere di braccarlo per togliere al rivale Trump l’annunciata carta della libertà del fondatore di Whikileaks.
I termini dell’accordo sono ovviamente sbilanciati a favore Usa e certo non tengono in alcun conto la missione giornalistica che Assange si era dato scoperchiando molti degli innumerevoli misfatti americani in Iraq, Afghanistan, Guantanamo.
Sarebbe solo una partita tra i due anziani rivali in cerca di voti per la presidenza Usa, se non fosse diventata negli anni una faccenda che riguarda direttamente il libero giornalismo e il conseguente bavaglio al suddetto praticato sistematicamente da tutti i leader del mondo e a tutte le latitudini e senza distinzioni di organizzazioni politiche nazionali. Spia del sistema, pericoloso attentatore agli indicibili segreti del potere costituito o paladino della verità e della trasparenza dei fatti, Assange torna ad essere padrone di se stesso confessando e ammettendo di aver cospirato contro la “sicurezza” americana e pagando persino una pesante cauzione.
E’ chiara la sproporzione tra le parti: di fronte al colosso Usa c’è un uomo indebolito e isolato, probabilmente malato, fiaccato nel corpo e umiliato da mille accuse pretestuose e persino inventate del genere “macchina del fango” di italica forgia, difeso da avvocati volontari ma soprattutto dalle verità diffuse e consegnate alla storia delle nefandezze mondiali, ma è così che Assange è tornato a casa salvandosi dal martirio e liberandosi, forse definitivamente, di un fardello troppo grande.
Ora in tempi in cui il mestiere giornalistico è diventato assai periglioso e prende sempre più piede quello cosiddetto “smart” che viaggia sul computer e non per la via o sul campo di battaglia, Assange resta un faro nelle nebbie del potere che non vuole essere controllato ma che anzi vuole controllare a sua volta, raccontare, indirizzare, spiegare e piegare, interpretare senza contraddittori o contestazioni.
Ai tempi della guerra in e all’Iraq che, detto per inciso, poco o nulla aveva a che fare con l’11 settembre di Bin Laden, gli inviati di guerra erano “enbedded”, cioè inglobati e protetti dalle armate Usa e anche coinvogliati sulle notizie e i fatti e le analisi consentite.
Ed è un sistema diffuso quello del giornalismo “accompagnato” se non pilotato che vale per tutti i fronti del mestiere, e non è detto che la piccola e grande rivoluzione in corso, quella legata ai social e che viaggia su binari non ufficiali, riesca a farsi strada tra le verità ufficiali certificate dal potere vigente.
Tuttavia resta la lezione di Assange al mondo dell’informazione: cercare la verità è un mestiere irto di ostacoli e tentare di scavalcarli lo si può pagare a caro prezzo.