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Tenendo il mio telefono in una mano e il mio cuore nell’altra

Di Ansam Alqatta – giornalista di Gaza City

Non mi aspettavo che le nostre penne si sarebbero trasformate in un’ancora di salvezza, che il mio telefono sarebbe diventato un muro dietro cui nascondermi dai bombardamenti e che il mio lavoro sarebbe stato il mio unico modo per sopravvivere e sentire di essere ancora una donna.

In molti luoghi, il giornalismo è definito come una professione di disturbo. Ma qui, nella città della vita e della morte, è una professione di vita e di morte. Per me, il giornalismo non è solo riportare le notizie, ma combattere una vera e propria battaglia con il nostro dolore, e talvolta con la morte stessa.

In molti momenti, la morte mi è stata più vicina di quanto lo sia il mio respiro, e ogni volta che sono sopravvissuta mi sono chiesta se fossi davvero fortunata. Poi mi sono subito ricordata che sono in una città circondata, dove ogni secondo che passa molte vite finiscono, e dove la sopravvivenza ha solo a che fare con il corpo: l’anima è già intrappolata tra i corpi dei morti.

Ogni volta che esco di casa per girare un servizio i miei pensieri si rincorrono: “E se questa fosse l’ultima volta che documento qualcosa? Mi domando a ogni passo. E se la prossima granata atterrasse accanto a me? Queste parole saranno pubblicate? Qualcuno le leggerà? Qualcuno saprà della mia determinazione a documentare le sofferenze della gente del nord della Striscia di Gaza?

Qualcuno saprà delle distanze che ho percorso a piedi per ottenere l’accesso a Internet per caricare una storia?

Quante volte mi sono trovato sul tetto di casa mia, o all’incrocio di Al-Ghafri nel mezzo di Al-Jalaa Street a Gaza City, tenendo il mio telefono in alto con una mano e stringendo il mio cuore con l’altra, sperando che il debole segnale sarebbe stato in grado di inviare un file video, prima che il suono delle granate e dei missili penetrasse nel mio corpo.

Cosa significa essere un giornalista senza internet, senza mezzi di trasporto? Cosa significa essere una giornalista arrabbiata che ha davanti agli occhi in ogni momento i volti dei propri cari morti, che cammina per ore e spera sempre di trovare un mezzo di trasporto per riposare i suoi piedi, stanchi di camminare?

Viaggiare per le vie distrutte di Gaza è diventato parte della nostra vita quotidiana. Niente trasporti, niente strade, niente sicurezza, eppure cerchiamo di catturare la dolorosa realtà e di raggiungere quelle stesse storie che erano lì e cercavano qualcuno che le potesse raccontare, prima di essere sepolte sotto le macerie.Mi chiamo Ansam Alqatta, sono una giornalista del nord della Striscia di Gaza, non sono un numero nella lista delle vittime. Voglio essere un nome, non un numero; amo la vita e lotto ogni giorno per viverla, non solo per sopravvivere. Sogno una vita migliore e credo che ce la meritiamo, non importa quanto cerchino di seppellire i nostri sogni sotto le macerie.

Non dimenticatevi di noi. Non siamo numeri, non siamo istantanee fugaci sugli schermi dei notiziari, siamo esseri umani che sognano, soffrono, amano, scrivono e vivono nonostante la morte che ci circonda. Chiediamo solo che le nostre voci siano ascoltate, che le nostre storie siano raccontate, che la nostra umanità sia rispettata. Non vogliamo pietà, vogliamo giustizia. Non cerchiamo eroismo, ma una vita normale che ci meritiamo come gli altri esseri umani, e se non potete salvarci, non siate complici del silenzio.

Ogni giorno che viviamo qui è una battaglia per la sopravvivenza, per la nostra memoria, per la nostra identità, per ciò che resta di noi. La parola che scriviamo è resistenza, le immagini che catturiamo sono testimonianze, e le nostre voci sono l’ultimo urlo prima che le macerie inghiottano la verità.

Se questa voce ti raggiunge, non voltarti dall’altra parte. Ascolta. Condividila. Sii un ponte tra noi e un mondo che sembra aver dimenticato che Gaza non è solo un punto sulla mappa: è volti, nomi e piccoli sogni che lottano per rimanere vivi.

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