Cerca
Close this search box.

Dibattito: potere e libertà

Tempi cupi per noi giornalisti. E non solo: tempi cupi per magistrati e studenti.  Perché associo queste categorie con la nostra? Perché a mio parere sono collegate da un invisibile filo conduttore. Ma procediamo con ordine.

I giornalisti dovrebbero essere il ‘cane da guardia’ contro il potere. Un ruolo che è sempre stato difficile rappresentare, sia oggi come in passato. Ma mai come oggi.

Ogni qualvolta ci si è trovati di fronte a un provvedimento di un governo e soprattutto davanti a uno scandalo che ha coinvolto un personaggio potente del mondo politico o economico (e che spesso ha portato all’apertura di un’inchiesta penale, civile o contabile) i media hanno acceso un faro per far luce sul fatto. Un faro che quasi sempre non è gradito dal soggetto o dai soggetti al centro della vicenda. Tant’è che spesso puntano le loro ‘armi’ contro le testate nemiche con cori di smentite o con altri servizi giornalistici pubblicati sui loro organi di informazione o di area o con vere e proprie querele temerarie e richieste di risarcimento danni in sede civile, altrettanto temerarie e intimidatorie. Recentemente il senatore di FdI Giovanni Berrino aveva presentato due emendamenti, poi ritirati a seguito delle proteste dell’opposizione, dell’Fnsi e degli stessi alleati di Governo, che prevedevano per la diffamazione il carcere fino a 4 anni e mezzo e sanzioni pecuniarie fino a 120mila euro per i giornalisti. Ultimi in ordine di tempo, anche se in questo caso non si tratta di giornalismo di inchiesta o di diritto di cronaca, sono il caso della censura di Scurati (cancellato il suo monologo sul fascismo dal programma Rai di Serena Bortone) e il licenziamento in tronco del direttore del Messaggero Alessandro Barbano, che aveva assunto l’incarico soltanto un mese fa. L’editore Caltagirone non ha reso note le motivazioni del licenziamento.

Oggi informare è sempre più difficile, soprattutto se sei un giornalista di inchiesta e/o giudiziario

Attività che spesso marciano di pari passo (un’inchiesta giornalistica porta all’apertura di un’indagine giudiziaria o viceversa da un’indagine giudiziaria si sviluppa un’inchiesta giornalistica). Ma questi sono i rischi del mestiere. Negli ultimi tempi, però, noto che fare il giornalista sta diventando sempre più difficile. Il ‘potere’ ha gettato la maschera, non gli basta più controllare alcuni giornali o testate (tv, radiofoniche o online) di proprietà o di area, non gli basta più ricorrere a querele o a richieste di risarcimento danni. Oggi, grazie a una maggioranza parlamentare schiacciante (non uso il termine ‘maggioranza bulgara’ perché, visto i tempi che corrono rischierei la querela), si varano leggi che impediscono o vorrebbero impedire al giornalista di pubblicare atti giudiziari fino a quando le indagini non sono concluse, quindi almeno fino al rinvio a giudizio dell’interessato o degli interessati. Mi riferisco alle norme previste dalla legge Cartabia (governo Draghi) e all’approvazione dell’emendamento Costa (deputato di Azione) approvato dal governo Meloni.

La riforma Cartabia infatti individua nel procuratore della Repubblica l’unica autorità legittimata a dare informazioni ai giornalisti sui procedimenti penali in corso, quindi di fatto impedisce ai cittadini di essere informati correttamente sul contenuto di un’inchiesta fino alla conclusione delle indagini. Un esempio: la chiusura delle indagini sulla pandemia Covid comunicata con una nota di 21 righe. Poi, se ne vuoi sapere di più spetta al giornalista (violando la legge) attraverso le sue fonti, scoprire cosa c’era dietro quelle 21 righe. E questo è quanto hanno fatto i colleghi per informare l’opinione pubblica.

Ddl Costa: l’emendamento approvato dai due rami del Parlamento stabilisce il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare fino al termine dell’udienza preliminare o fino alla fine delle indagini, quando questa non è prevista. In questo modo tutto ciò che è contenuto in un’ordinanza di custodia cautelare, intercettazioni tra gli indagati, testimonianze, riscontri documentali non possono essere pubblicati. In entrambi i casi (Legge Cartabia e Ddl Costa) vengono giustificati sulla base del principio della presunta innocenza. In altre parole l’attività del giornalista dovrebbe limitarsi a riportare le notizie diramate o autorizzate dalla procura titolare dell’inchiesta. Insomma una sorta di casella postale dove si indirizza una nota. Poi stop fino al termine delle indagini o all’eventuale processo.

E questo tutto in barba all’art. 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.

E quando la libertà di informazione non si può limitare con le nuove leggi, si può sempre aggirare l’ostacolo: è il caso dell’Agi, che da circa 70 anni ha come editore l’Eni. Ora si affaccia (e pare che la trattativa sia in fase di conclusione) il deputato leghista Antonio Angelucci, imprenditore di un impero sanitario nonché editore dei tre quotidiani di destra (Il Giornale, Il Tempo e la Verità). Se l’operazione dovesse andare in porto cesserebbe il ruolo di una delle agenzie primarie più importanti del Paese (per la precisione la seconda dopo l’Ansa). La Fnsi, Stampa Romana e quasi tutti i partiti dell’opposizione, eccetto Italia Viva, hanno denunciato l’evidente conflitto di interessi, la concentrazione di un polo informativo su un’unica persona. E da parte del Governo il silenzio completo, ad eccezione  del ministro dell’Economia Giorgetti che, rispondendo al question time nei giorni scorsi, ha detto:  “Il ministero dell’Economia ha appreso la notizia da fonti di stampa e non è deputato a esprimersi sulla questione pur detenendo una partecipazione diretta e indiretta in Eni pari a circa il 30% (cosa da nulla per lui, ndr): a tale partecipazione, infatti, non corrisponde alcun potere in merito a decisioni di natura squisitamente gestionale”. Per poi aggiungere: “È questione di per sé delicata che una società partecipata dallo Stato possegga un’agenzia di stampa, poiché questo potrebbe alimentare dubbi sulla effettiva libertà di informazione della stessa: io posso garantire che non c’è stata e non ci sarà nessuna influenza nel corso del mio mandato, ma non potete chiedere a me conferme in tal senso né per il passato né per il futuro”. Una sorta di via libera all’operazione.

Ma torniamo all’invisibile filo conduttore che collegherebbe l’attacco alla libertà di informazione con la magistratura e con le proteste studentesche.

Da tantissimi anni alcune forze politiche (la maggior parte di centro destra) portano avanti la loro ‘guerra’ al potere giudiziario. Da anni la magistratura viene accusata di essere l’artefice delle crisi di governo con le inchieste ad orologeria che – a loro dire – vengono aperte alla vigilia di scadenze elettorali. I responsabili di queste situazioni non sarebbero tutti i magistrati, ma solo alcuni (un tempo definiti ‘toghe rosse’) con simpatie politiche per la sinistra che in combutta con alcune testate giornalistiche danno vita alla congiura di palazzo. Come arginare questo fenomeno? Con la separazione delle carriere. E nei giorni scorsi il Governo ha approvato un Ddl Costituzionale che prevede, tra l’altro, la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici (un primo passo per mettere i pm sotto il controllo del potere esecutivo? Il governo nega, sarà…). Un obiettivo, questo, che era contenuto anche nel piano Rinascita di Licio Gelli e, successivamente, nei vari tentativi o progetti di riforma portati avanti dai vari governi Berlusconi.

Ma i tempi per questa riforma – ammesso che superi i fondatissimi dubi di legittimità costituzionale, se non addirittura essere sottoposta a un vero Referendum – sono lunghi e difficoltosi. Quindi nel frattempo si varano i test di accesso per i futuri magistrati, che pur avendo superato il concorso, dovrebbero sottoporsi a un esame psichiatrico. I particolari non sono stati ancora chiariti dal legislatore. Li scopriremo più avanti. Ma insomma il binomio giornalista-magistrato resta un cavallo di battaglia.

E gli studenti che c’entrano ora con tutto questo discorso? C’entrano indirettamente. Negli ultimi tempi, infatti, molte proteste studentesche sono state oggetto di cariche da parte delle forze dell’ordine. In particolare quelle recenti di Pisa e Firenze: in entrambe i casi si trattava di proteste pacifiche. La maggior parte degli organi di informazione hanno dato la notizia, mostrato le immagini e sottolineato che si trattava di giovani e giovanissimi che manifestavano pacificamente. Ancora una volta da parte di qualche esponente politico sono state mosse critiche sia agli studenti, definiti violenti o minacciosi, e questo nonostante le immagini parlassero chiaro, sia ai giornalisti che avrebbero mandato in onda solo le immagini che gli facevano comodo.

Un unico filo conduttore che rende difficile la vita del giornalista, del magistrato e anche dello studente che protesta. Da qui la necessità di tenere sempre acceso un faro che illumini la realtà.

Condividi questo articolo: